giovedì 24 dicembre 2015

DI COSA SI PUÒ AMMALARE UNA DEMOCRAZIA?

 
Platone



Sento lamentare tanti che la nostra civiltà è sofferente; che tutto va male e i governanti, invece di mettere a posto le cose, pensano solo ai loro interessi.
La domanda viene spontanea: cosa possiamo fare per cambiare la situazione e far guarire la nostra società? Credo che non esistono risposte semplici a queste domande, ma altre domande. Dobbiamo chiederci cosa ci hanno lasciato in eredità i nostri Padri, cioè coloro che hanno costruito la Repubblica e la Costituzione.
È indiscutibile che ci abbiano lasciato dei tesori da usare, custodire e proteggere. Ma dobbiamo anche chiederci, come li abbiamo custoditi e quale eredità, in proposito, lasceremo ai nostri figli.
Ci sono cittadine e cittadini impegnati ad apportare nuova linfa alla Democrazia; ce ne sono, anche, che vigilano sulla Costituzione; altri, nel loro piccolo, senza far chiasso, si impegnano a risolvere problemi collettivi. Ma si tratta di una piccola minoranza, la maggior parte di noi si occupa prevalentemente degli affari propri, apportando qualche miglioria solo al proprio benessere. Tutti però, quando si tratta di chiedere diritti, ci appelliamo tanto alla Democrazia quanto alla Costituzione.
Se Democrazia e Costituzione sono una ricchezza, ma molti consumano e pochi l’alimentano, quanto può durare?
Credo che queste siano alcune delle cause che indeboliscono la democrazia e di conseguenza la società. E non credo che i colpevoli siano solo i governanti, anche se loro hanno delle forti responsabilità. Credo che ogni cittadino, se soffre di questo malessere, dovrebbe chiedersi cosa ha fatto affinché la Democrazia non si ammalasse.

Per avere qualche indicazione su cosa dovremmo fare per far guarire la nostra civiltà, mi affido proprio a quei Padri che, direttamente o indirettamente, hanno costruito Democrazia e Costituzione.
Riguardo alla Democrazia, parto da lontano chiedendo lumi a Platone. Mentre per sapere cosa ne facciamo della Costituzione, mi affido a Piero Calamandrei, che era tra coloro che l’hanno fatta nascere.


Da: La Repubblica di Platone (360 a.c.)
Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri.
Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi.
Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice.
Così la democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel sangue, nel ridicolo”.

Tratto da: Discorso sulla Costituzione di Piero Calamandrei (1955)
La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo.
«La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «
Che me ne importa? Non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica”.

Aver scambiato la Democrazia per licenza, lo Stato per una mucca da mungere, e la Carta costituzionale per un rotolo da gabinetto. Questo ci dicono Platone e Calamandrei. E queste, credo, siano le responsabilità di tanti governanti e di molti cittadini: aver infettato la Democrazia per ABUSO di se stessa, e maltrattata la Costituzione per l’IGNORANZA di esserne possessori.
                                                                                                    
         
                                                                                                 Francesco Corradino
 










 

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