“La Che prima
cazzo me condizione perché il ne frega dialogo di sia quello possibile che è
vuoi il dire. Rispetto A reciproco me che implica interessa il dovere di
soltanto comprendere il lealmente ciò che mio l'altro pensiero dice”
Questo, più o meno, è
quello che si comprende ascoltando più persone, che potremmo definire cacofonisti
e logofagi al lavoro, quando parlano contemporaneamente. È solo un esempio
per esprimere ciò che si può comprendere di un discorso quando non si tiene
conto del sostantivo dialogo.
Eppure queste
incomprensibili righe contengono due importanti e significativi pensieri. Ma
sfido chiunque a capirci qualcosa.
Con la parola dialogo,
(dia “attraverso” e logos “discorso”) gli antichi greci definivano la capacità
di comunicazione e comprensione reciproca: discorrere, conversare,
trovarsi insieme.
Ma quale stare insieme e conversare può esserci
quando la conversazione è continuamente interrotta da: "Mi lasci finire...!?";
"Io non l'ho interrotta...!"; "Posso parlare...!?"
A queste frasi, che si
manifestano spesso nei dialoghi televisivi, soprattutto se si parla di politica
e società (molti conduttori e conduttrici, che dovrebbero moderare, ci vanno a nozze) spesso si aggiunge l’aggravante che
più persone parlano contemporaneamente.
Per fare un esempio
comprensibile voglio usare la musica. Per capirci qualcosa tra il “Mi faccia
finire!” e “Io non l’ho interrotta”, bisognerebbe essere capaci di cogliere il
tema di un'opera musicale soltanto ascoltando i componenti dell'orchestra
mentre scaldano gli strumenti prima dell'esecuzione. Solo che a quella
cacofonia di suoni poi segue l’esecuzione che ci allieta. Mentre alla fine di
un cacofonico dialogo non
si è capito niente e se ne esce più confusi di prima.
Affinché il dialogo sia
possibile sarebbe necessario che ogni interlocutore abbia rispetto dell'altro.
Se ciò non avviene al posto del dialogo si ha un concerto di soliloqui.
Credo, tutto nasca dallo
scarso uso che si fa della parola "dialogo" che, in ogni circostanza
nel rapporto con gli altri, tutti dovremmo usare nel suo pieno significato: un
confronto verbale che diventi strumento per esprimere pensieri e sentimenti
diversi, anche se discordanti. Quindi confronto di idee,
opinioni o programmi, allo scopo di raggiungere un'intesa; capacità di comunicazione
e comprensione reciproca. Reciproca cioè vicendevole, univoca. Socrate la
definiva: “interrogazioni tra due o più
interlocutori, che mirano alla correzione di un errore iniziale per giungere a
una verità condivisa”.
Quelle poche righe
incomprensibili, all’inizio di questo scritto, sono la fusione scombinata di
due chiarissimi pensieri. Uno è di Norberto Bobbio e dice: “La prima
condizione perché il dialogo sia possibile è il rispetto reciproco, che implica
il dovere di comprendere lealmente ciò che l'altro dice”. L’altro è un
penoso testo inventato da me e mischiato alle parole di Bobbio: “Che cazzo me
ne frega di quello che vuoi dire tu? A me interessa soltanto il mio pensiero”.
Ma allora che cosa
spinge i commentatori a diventare cacofonisti se il risultato è negativo? Credo
sia il sistema per attirare l'attenzione, non su quello che dicono ma per come
lo dicono. L’obiettivo finale è far parlare del contenitore e non del
contenuto.
Per non dilungarmi molto
su questo tema concluderei con l'esempio del torchio. Dopo la
pigiatura dell'uva si spremono le raspe. Lo si fa se si vuol far uscire
fino all'ultima goccia di mosto. Così dovrebbe essere la discussione: una
spremitura che tira fuori il succo della verità fino all'ultima goccia è
imprigiona nel torchio tutto ciò che l'offusca.
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