domenica 1 giugno 2025

UN COSTRUTTORE DI CIVILTÀ


  

 Un uomo che con impegno aveva dedicato l’intera vita al lavoro, distinguendosi per dedizione e onestà, il giorno in cui andò in pensione e si ritrovò con molto tempo libero, si interrogò su come potesse rendersi utile alla collettività.

Aveva sempre pensato che per creare una società sana non fossero necessari uomini straordinari, ma grandi progetti realizzati grazie al contributo di molte persone, ciascuna con un piccolo ruolo. Decise quindi di dedicare parte del tempo libero ai suoi interessi, ma voleva anche fare qualcosa per la comunità, partecipando a un’iniziativa più ampia. Ciò che gli serviva, però, era la chiave per cominciare.

Nell’attesa di trovarla iniziò a documentarsi sul pensiero dei costruttori di civiltà del passato e ben presto si accorse che l’ispirazione era nascosta nella sua stessa esperienza.

Da ragazzo non aveva ancora sviluppato la capacità di classificare l’umanità nelle sue varie sfaccettature, ma sapeva riconoscere quando un evento gli sembrava strano. Durante l’adolescenza, uno dei pochi svaghi concessi ai ragazzi della sua età era la pedalata domenicale in bicicletta. Con gli amici percorreva dieci, venti chilometri per raggiungere i paesi vicini, spingendo biciclette messe insieme con pezzi di modelli diversi. Per un certo periodo, la sua aveva addirittura le ruote di due misure differenti.

Tra i problemi meccanici che puntualmente si presentavano, a causa della precarietà dei mezzi, c’era un fatto curioso: quando si dirigevano verso un certo paese, quasi sempre a qualcuno del gruppo si forava una gomma. Stranamente, ciò non accadeva mai nelle altre direzioni. Ma, oltre alla sfortuna, c’era un aspetto positivo: proprio in quella zona si trovava un’officina di riparazioni, aperta anche la domenica mattina.

Per il gruppo, inesperto e ingenuo, si trattava solo di una coincidenza. Si concentravano sulla fortuna di avere un riparatore disponibile proprio nel momento del bisogno, senza sospettare che dietro quelle puntuali forature potesse nascondersi un piccolo mistero. Così, per anni, quel ricordo rimase un aneddoto curioso delle loro avventure in bicicletta.

Molti anni dopo, il protagonista di questa storia conobbe e frequentò una persona che, a quei tempi, abitava proprio in quel paese. Un giorno gli raccontò di quelle strane forature della giovinezza. L’amico, dopo una sonora risata, gli svelò il segreto del riparatore di biciclette.

Quel meccanico gestiva la sua officina come se fosse un orto: seminava per raccogliere. Alcune mattine, prima di aprire il negozio, usciva con un pugno di chiodini a tre punte in tasca e li spargeva sulla strada dove passavano i ciclisti. Puntualmente, qualche ora dopo, i suoi “semi” trasformavano quei ragazzi in clienti, trasferendo i pochi spiccioli dalle loro tasche alle sue.

Quel ricordo, a distanza di anni, gli suggerì un’idea per il suo grande progetto. Decise di adottare la stessa tecnica, ma con uno scopo opposto. Da quel giorno, ogni mattina, immaginava di mettere in tasca un pugno di semi destinati alla sua visione di comunità. Durante il giorno li spargeva lungo il suo cammino attraverso piccoli gesti positivi, nella speranza che potessero attecchire e contribuire alla costruzione di una società migliore. Non sapeva quanti di quei semi avrebbero germogliato, ma non gli importava: gli bastava sapere che il suo esempio poteva ispirare altri a fare lo stesso, dando vita a nuovi “grandi progetti”.

(Ispirato a un passo del romanzo, ancora inedito,“L’Asterisco Rosso”)

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Ad integrazione del racconto, concedetemi un pensiero sul diritto-dovere di ogni cittadino, parafrasando Pericle (Atene, 461 a.C.).

La nostra Costituzione non si modella su quella degli altri; semmai è un modello per gli altri. Il suo nome è democrazia.
L’amministrazione della cosa pubblica non è affidata a pochi, ma è responsabilità della maggioranza di coloro che vanno a votare.
E chi non partecipa a queste attività non lo consideriamo una persona riservata o pacifica, ma inutile alla democrazia.


giovedì 24 aprile 2025

PERCHÈ IL 25 APRILE 2025 È SPECIALE?


https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/4/40/Il_quarto_stato_%28Volpedo%29.jpg
Il Quarto Stato (1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Un simbolo eterno della marcia del popolo verso la giustizia sociale e l’uguaglianza.​

Questo 25 APRILE io lo immagino così

Nel giorno in cui celebriamo la Liberazione, non possiamo limitarci alla memoria. Dobbiamo guardare con occhi vigili il presente, perché il vento del passato autoritario soffia ancora tra le pieghe del nostro tempo. L’avanzata delle destre in molte parti del mondo non è un fenomeno isolato, ma piuttosto un ritorno alla lotta per riconquistare ciò che è stato perso: il potere incondizionato.

La democrazia e le costituzioni nazionali hanno infatti costretto i potenti, un tempo considerati superiori a tutti, ad accettare una realtà scomoda: che i diritti e i doveri non fossero più solo il privilegio della ricca élite, ma anche del popolo, dei più poveri, dei più deboli. Per molti anni, la democrazia ha imposto una sorta di “umiltà” alla classe dominante, che ha visto ridurre il proprio potere in nome di un principio che oggi suona quasi utopico per molti: l'uguaglianza di diritti e doveri per tutti.

Per chi ha vissuto a lungo con la certezza che la ricchezza e il potere conferissero una superiorità indiscutibile, questo equilibrio è stato vissuto come una dura sconfitta. L'arroganza, derivata dal denaro e dal potere, è stata costretta a indossare una maschera di apparente modestia. I ricchi e i potenti, che un tempo camminavano a testa alta su tutti, sono stati costretti a sopportare, loro malgrado, una realtà in cui il denaro non dava più diritto a trattare gli altri come sudditi. Ma cosa resta di questa "umiltà" imposta? La risposta è semplice: il desiderio di recuperare quella stessa arroganza che, un tempo, sembrava inestinguibile.

Chi poteva restituire a questa élite la tronfia sicurezza di una posizione al di sopra della massa? I "propri" alleati, coloro che politicamente condividono l’identico modello di potere. È qui che entra in scena l’ascesa delle destre. I leader di questi movimenti hanno saputo intercettare le paure e le frustrazioni di chi si sente impotente di fronte al cambiamento, ma soprattutto hanno trovato una via per risvegliare quella parte dell’élite che non ha mai smesso di sognare di dominare senza restrizioni. Con la loro retorica, le destre stanno promettendo non solo la restaurazione di un ordine economico favorevole a pochi, ma anche la rivincita di un’identità smarrita, che si traduce nell’idea di “riprendersi ciò che ritengono un loro diritto”.

Ma non è solo una questione di ritorno al potere economico. C’è un piano più ampio, che passa per il controllo politico. Le destre sanno che il potere assoluto si ottiene solo quando le opposizioni vengono annientate, ridotte al silenzio o manipolate. E così, con la complicità di parti della politica, queste forze stanno cercando di cancellare il dissenso, di escludere i “rompicoglioni” che, secondo loro, ostacolano la "purezza" di un potere che dovrebbe restare incontestato. La possibilità di spadroneggiare senza freni, di godere nuovamente di quella tronfia arroganza, è un sogno che oggi sembra più vicino che mai.

In un mondo dove la democrazia ha distribuito il potere e i diritti a tutti, le destre non si accontentano più di essere solo una minoranza con influenze economiche e politiche. Ora aspirano a riprendersi la centralità che un tempo apparteneva loro, cancellando le conquiste sociali, rinnovando l'idea di un potere che non si fa condizionare da nessuna forma di controllo democratico. Il ritorno alla tronfia arroganza non è solo un capriccio della classe dirigente, ma la risposta a una battaglia mai davvero vinta: quella contro un popolo che non si rassegna a veder cancellato il proprio diritto di partecipare a un destino comune.
Eppure, questo sogno delle destre non è altro che l'ennesima manifestazione di un vecchio potere che, incapace di evolversi, sogna di ripristinare l’ordine di un tempo. Un ordine in cui i pochi privilegiati decidono per tutti, senza il fastidio di doversi confrontare con le opposizioni o, peggio ancora, con il popolo. Ma questa Restaurazione, favorita dal “sonno” delle classi meno abbienti e dall’assopimento del pensiero delle sinistre (che dovrebbero invece essere impegnate a costruire un’alternativa) non sarà solo un ritorno al passato: sarà la conferma che la lotta per l’uguaglianza e la giustizia, mai del tutto vinta, non è ancora finita.

A ricordarci di non cedere c’è l’urlo di dolore dei martiri del Risorgimento e della Resistenza.
Dalle barricate del 1848 alle montagne partigiane, dalle carceri borboniche ai campi di sterminio, ogni voce spezzata ci ricorda che la libertà ha un prezzo. E che quel prezzo è stato pagato, spesso, con la vita. 

 

domenica 16 febbraio 2025

I SEMI DELLA CIVILTÀ

 


Non sono un pittore né uno scultore; tuttavia dipingo e modello. Non sono nemmeno un cantante di successo, né un attore affermato; però canto e recito. Non ho abbastanza coraggio per conquistare quello che vorrei, né la necessaria paura per tenermi lontano da ciò che vorrei che non accadesse. Tuttavia dipingo e modello nei miei pensieri ciò che vedo e ascolto; canto e recito la mia parte.

Non sono ricco da poter comprare uno spazio mediatico in cui far notare (o forse urlare) la parte che dovremmo tutti impersonare. Non sono, ahimè, figlio, fratello o convivente di un politico. E nemmeno sono un politico, tuttavia non posso fare a meno di occuparmene.

 Non “sono”, eppure sono e sento. Sento delle ragioni. Sento che anch'io ho dei doveri e delle responsabilità se non siamo quello che dovremmo essere. Se ancora non siamo quello che vorremmo essere: un mondo migliore.

 Secondo Aristotele, “in uno Stato ciascuno deve svolgere le proprie funzioni al fine del bene collettivo. In quest’azione si manifesta la sua virtù”.

 

 

Il metodo

 
    Ogni società porta nel proprio bagaglio l'eco del passato, incapace di abbandonare ciò che è stato. Impariamo da quel bagaglio. Abbiamo la possibilità di trasformarlo in un pensiero puro e vergine come quello di un prigioniero silenzioso che, nonostante le catene, custodisce in sé il sogno della libertà. Oppure possiamo vederlo come un'anima appena innamorata, un ingenuo pensiero che osa sognare qualcosa di grande.
    Immaginiamo il polline di un fiore sospinto da un leggero soffio di vento o dal respiro delicato di qualcuno. In un attimo, invisibile all'occhio, si libera per abbracciare altri fiori portando con sé la promessa di rinascita. E quando il fiore appassisce non segna la fine ma l'inizio di una nuova vita: fragile e sorprendente come un anticorpo che si erge contro una forza oscura.
    Oppure consideriamo il bruco che, consumato il suo tempo, lascia il posto alla meraviglia: la farfalla che spicca il volo e incarna il miracolo del cambiamento. Tutto dipende dal seme, quel minuscolo nucleo di potenzialità che è il nostro pensiero. Possiamo diventare noi stessi quel seme maturo pronto a dar vita ad una nuova Civiltà fatta di sogni e passioni.
    Pensiamo anche all'acqua, simbolo per eccellenza della vita, della rinascita e della purificazione. Essa nasce in cima a un monte, pura e indomita, e segue il suo percorso con calma, scavalcando ostacoli e superando ogni curva del destino, finché non giunge al mare, il suo altare. Lì si dissolve per sublimarsi in qualcosa di più grande.

     Per costruire una civiltà dobbiamo ispirarci a queste cose, non per imporci, non per irreggimentare o dominare, ma per contagiare altri con una forza delicata.
    Ricordiamo quando da bambini correvamo verso il genitore per trovare rifugio in un abbraccio che racchiudeva tutta l'essenza della vita? In quell'istante il mondo sembrava ridursi all'amore che dissetava la nostra anima. È proprio quell'emozione, quell'istante di pura felicità che può trasformare i nostri sogni in Civiltà.
    Il raccolto arriverà quando deve arrivare; nel frattempo ogni azione ci può far riscoprire la nostra virtù per un cammino di sogni e di utopie realizzabili.

Chiunque sente il richiamo di quel seme interiore, si può unire a questo pensiero fragile e potente capace di far fiorire e contagiare il mondo, dando origine ad una civiltà che non smette mai di sognare un mondo migliore per i nostri figli e per coloro che verranno dopo di loro.

 

domenica 22 dicembre 2024

IL LIBRO DEL CINQUECENTO

 

     Il parroco di un paese prevalentemente abitato da contadini, braccianti e artigiani un giorno chiamò a colloquio la persona che da anni lavorava a mezzadria alcuni dei suoi terreni. I due, d’accordo, avevano stabilito che tutto il raccolto venisse diviso in parti uguali, con la formula “uno divide e l’altro sceglie”. Tuttavia, questo non avveniva per alcuni frutti, soprattutto per le primizie. In quei casi, i piccoli piaceri del palato del prete erano affidati all’onestà del mezzadro.  


A causa degli impegni parrocchiali e della considerevole distanza tra il giardino e il paese, il prete non era sempre al corrente della quantità e del periodo di maturazione di alcuni frutti. Questi potevano variare di qualità e quantità a seconda dell’annata, e il periodo di maturazione non era sempre prevedibile. Forse a causa di un’eccessiva fiducia nel mezzadro, col passare degli anni, i frutti sulla tavola del prete avevano cominciato a scarseggiare. 
    «Cosa è successo quest’anno ai fichi? Ancora non li ho neppure assaggiati…!» domandò il prete. Era la stessa domanda che gli aveva già fatto l’anno precedente.  
    «Parrinu! I fichi quest’anno si futtieru!» rispose il contadino, abbassando lo sguardo per evitare quello indagatore del prete.  
    Ma dato che il prete aveva buona memoria e ricordava che, a detta dell’uomo, i fichi se li erano “fottuti” anche l’anno precedente e quello ancora prima, non se la bevve facilmente. Stimolato dal fatto che era ghiotto di quel frutto, architettò un piano per misurare l’onestà del mezzadro.  

    Qualche giorno dopo, lo fece tornare a casa sua. Quella sera, dopo averlo accolto in una stanza piena di libri, con la scusa di dover risolvere urgenti questioni, lo fece aspettare per un tempo che all'uomo sembrò interminabile. Nell’attesa, l’attenzione del mezzadro fu attratta da una vetrina chiusa a chiave, dentro la quale erano custoditi alcuni vecchi volumi con il dorso consunto. In particolare, il titolo di uno di questi, un libro di colore amaranto, gli ricordava qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. Di certo, la lunga attesa e tutti quei libri lo misero un po’ in soggezione.  
    Mentre cercava di dare un senso a quel ricordo, una voce improvvisa lo fece trasalire.  
    «Dimmi un po’!» irruppe nella stanza il prete. «Ti farebbe piacere sapere chi si è fottuto i nostri fichi?»  
    «Reverendo…!? Come è vero che tutte le mattine spunta il sole! È la prima cosa che vorrei sapere», mentì il contadino, già in soggezione e agitato per la lunga attesa e per quell’irruzione a sorpresa, minuziosamente calcolata.  
    «Allora vieni domani sera prima della mezzanotte. Forse potrò aiutarti... Vedi quel libro dentro la vetrina? Quello con la copertina amaranto e con il dorso più logoro degli altri? Quello è il Libro del Cinquecento. In certe situazioni, se consultato allo scoccare della mezzanotte, nel settimo giorno del settimo mese dell’anno, potrebbe rivelarci la faccia del malandrino ghiottone di fichi non suoi. Sempre che… ti faccia piacere!»  
    «Certo… Certo… Domani sera…» balbettò l’uomo.  
    «Domani, provvidenzialmente, è il sette luglio», lo incalzò ancora il prete. «Capisci che fortuna…!?»  
Il contadino, con un’espressione tra il preoccupato e il sorpreso, fece un accenno di sì con il capo e, a testa bassa, salutò il parroco. Si rimise in testa il berretto, ridotto a straccio a furia di torcerlo con entrambe le mani come fosse un canovaccio da strizzare, e andò via.  

    Per tutta la notte, l’uomo ripensò a quel vecchio libro di color amaranto chiuso a chiave nella vetrina del mobile a casa del prete. Ricordò che fin da bambino gli avevano raccontato di quel misterioso libro del Cinquecento che, in particolari circostanze, poteva rivelare verità altrimenti celate ai comuni mortali. E finalmente lui lo aveva visto, anche se solo attraverso il vetro del mobile; anzi, aveva persino appoggiato la mano al vetro, quasi a volerlo toccare. In altre circostanze sarebbe stato ben felice di farne la conoscenza, ma a inquietargli il sonno, in quel caso, non era il libro in sé, bensì ciò che esso era in grado di rivelare. Durante la notte, nelle orecchie dell’uomo riecheggiarono gli ammonimenti di chi, negli anni, aveva tramandato la storia del libro del Cinquecento:  
    “Meglio non trovarsi mai al cospetto di un prete che tiene in mano quel libro!”  
    “Attenti…! Quel libro fa vedere la faccia del peccatore!”  
    “Quello è il libro della verità…!”  
    Probabilmente, per lui quel libro rappresentava il soprannaturale messo nelle mani del prete. Vedere la faccia del ladro di fichi evidentemente non gli dava affatto gioia, anzi lo inquietava. Purtroppo, non poteva dire al prete che avrebbe preferito sottrarsi a quella prova straordinaria e misteriosa.  

    L’indomani sera si recò all’appuntamento con qualche ora di anticipo e con in mano un cesto pieno di fichi della migliore qualità.  
    «Parrinu!» disse con falsa allegria, «Questi sono per voi... Sono andato a raccoglierli nel giardino di un mio carissimo amico che, quando ha sentito che erano per voi, mi ha detto di raccogliere solo i migliori…»  
    Dopo che il prete prese in mano il cesto, il mezzadro, con l’espressione di chi vuole risolvere pacificamente le questioni, consapevole che il libro sarebbe stato per lui come uno specchio, aggiunse:  
    «Reverendo! Le cose sovrumane lasciamole in pace. Non è il caso di disturbarle per un semplice piatto di fichi, anche se di buona qualità».  

    Dopo quell’accadimento, sulla tavola dell’astuto prete tornarono puntuali e nella giusta quantità le primizie del suo giardino, mentre per il contadino un altro frutto germogliava ogni anno nella pianta di fico: il Libro del Cinquecento, capace di svelare verità e risolvere problemi... senza nemmeno essere aperto.  

martedì 29 ottobre 2024

Antonio De Curtis, 'A LIVELLA

 

Antonio De Curtis

Ascolta 'A LIVELLA

 

    In questa ricorrenza del ricordo dei morti voglio condividere con voi una delle opere più significative della filosofia di Totò, al secolo Antonio De Curtis: 'A Livella.

    Scritta nel 1964, questa poesia è un esempio straordinario di come Totò, noto per il suo talento comico, abbia saputo anche esplorare temi profondamente umani e universali. La "livella" simboleggia ciò che rende gli uomini uguali indipendentemente dal loro status sociale quando erano in vita.

    Invito i lettori di questo blog ad ascoltare attentamente e a lasciarsi trasportare dal profondo significato.

    In via eccezionale, contrariamente ai principi di questo blog, per ascoltarla è necessario "subire" qualche secondo di pubblicità.

Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza
Per i defunti andare al Cimitero
Ognuno ll'adda fà chesta crianza
Ognuno adda tené chistu penziero...

 Ascolta 'A LIVELLA

 

domenica 7 luglio 2024

FIGLIO, CHE SOFFI NELLE VELE

 

FIGLIO, CHE SOFFI NELLE VELE

Soffia, figlio, nelle vele di questa barca logora e vissuta,
senza ancora e senza bussola, con il timone cigolante,
qualche squarcio nelle vele e il rematore quasi stanco.

Soffia, figlio, soffia! Su queste mie ali fragili e stanche.
Dai ossigeno al mio respiro, che mi toglie dalle secche.
La mia meta è navigare con il tuo sguardo all’orizzonte.

Non ho mappe da consultare né divise da indossare.
Ogni meta del nostro viaggio, un punto per ripartire.
Al successivo approdo, un altro porto già ci attende.

Il mio pensiero è vegliare sulle rotte che vuoi solcare.
A volte le acque son tranquille, altre mari tempestosi.
Quanti
pericoli in agguato e quanti  ostacoli da scansare.

Capitano di bastimento, senza mappe da consultare.
Il tuo soffio, sempre atteso, mi sostiene e mi incoraggia.
Se mi fermo, perché stanco, tu non smettere di soffiare.

Tu, figlio, apprendista rematore, senza limiti nei pensieri.
Senza squarci nelle vele, con in mente un grande sogno:
capitano diventare di un bastimento da governare.

Molti mari dovrai solcare, da porti certi ad altri ignoti.
La tua meta sarà cercare nuovi orizzonti da esplorare.
Punta sempre verso un porto: il tuo sogno da realizzare.

Segui il cuore e il tuo futuro senza divise da indossare.
Sarà un soffio, sempre atteso, a rafforzare il tuo coraggio.
Continua, figlio, a navigare, e non smettere di sognare.