domenica 16 febbraio 2025

I SEMI DELLA CIVILTÀ

 


Non sono un pittore né uno scultore; tuttavia dipingo e modello. Non sono nemmeno un cantante di successo, né un attore affermato; però canto e recito. Non ho abbastanza coraggio per conquistare quello che vorrei, né la necessaria paura per tenermi lontano da ciò che vorrei che non accadesse. Tuttavia dipingo e modello nei miei pensieri ciò che vedo e ascolto; canto e recito la mia parte.

Non sono ricco da poter comprare uno spazio mediatico in cui far notare (o forse urlare) la parte che dovremmo tutti impersonare. Non sono, ahimè, figlio, fratello o convivente di un politico. E nemmeno sono un politico, tuttavia non posso fare a meno di occuparmene.

 Non “sono”, eppure sono e sento. Sento delle ragioni. Sento che anch'io ho dei doveri e delle responsabilità se non siamo quello che dovremmo essere. Se ancora non siamo quello che vorremmo essere: un mondo migliore.

Secondo Aristotele, “in uno Stato ciascuno deve svolgere le proprie funzioni al fine del bene collettivo. In quest’azione si manifesta la sua virtù”.

Il metodo 

Ogni società porta nel proprio bagaglio l'eco del passato, incapace di abbandonare ciò che è stato. Impariamo da quel bagaglio. Abbiamo la possibilità di trasformarlo in un pensiero puro e vergine come quello di un prigioniero silenzioso che, nonostante le catene, custodisce in sé il sogno della libertà. Oppure possiamo vederlo come un'anima appena innamorata, un ingenuo pensiero che osa sognare qualcosa di grande.

Immaginiamo il polline di un fiore sospinto da un leggero soffio di vento o dal respiro delicato di qualcuno. In un attimo, invisibile all'occhio, si libera per abbracciare altri fiori portando con sé la promessa di rinascita. E quando il fiore appassisce non segna la fine ma l'inizio di una nuova vita: fragile e sorprendente come un anticorpo che si erge contro una forza oscura.

Oppure consideriamo il bruco che, consumato il suo tempo, lascia il posto alla meraviglia: la farfalla che spicca il volo e incarna il miracolo del cambiamento. Tutto dipende dal seme, quel minuscolo nucleo di potenzialità che è il nostro pensiero. Possiamo diventare noi stessi quel seme maturo pronto a dar vita ad una nuova Civiltà fatta di sogni e passioni.

Pensiamo anche all'acqua, simbolo per eccellenza della vita, della rinascita e della purificazione. Essa nasce in cima a un monte, pura e indomita, e segue il suo percorso con calma, scavalcando ostacoli e superando ogni curva del destino, finché non giunge al mare, il suo altare. Lì si dissolve per sublimarsi in qualcosa di più grande.

 

Per costruire una civiltà dobbiamo ispirarci a queste cose, non per imporci, non per irreggimentare o dominare, ma per contagiare altri con una forza delicata.

Ricordiamo quando da bambini correvamo verso il genitore per trovare rifugio in un abbraccio che racchiudeva tutta l'essenza della vita? In quell'istante il mondo sembrava ridursi all'amore che dissetava la nostra anima. È proprio quell'emozione, quell'istante di pura felicità che può trasformare i nostri sogni in Civiltà.

Il raccolto arriverà quando deve arrivare; nel frattempo ogni azione ci può far riscoprire la nostra virtù per un cammino di sogni e di utopie realizzabili.

Chiunque sente il richiamo di quel seme interiore, si può unire a questo pensiero fragile e potente capace di far fiorire e contagiare il mondo, dando origine ad una civiltà che non smette mai di sognare un mondo migliore per i nostri figli e per coloro che verranno dopo di loro.

 

domenica 22 dicembre 2024

IL LIBRO DEL CINQUECENTO

 

     Il parroco di un paese prevalentemente abitato da contadini, braccianti e artigiani un giorno chiamò a colloquio la persona che da anni lavorava a mezzadria alcuni dei suoi terreni. I due, d’accordo, avevano stabilito che tutto il raccolto venisse diviso in parti uguali, con la formula “uno divide e l’altro sceglie”. Tuttavia, questo non avveniva per alcuni frutti, soprattutto per le primizie. In quei casi, i piccoli piaceri del palato del prete erano affidati all’onestà del mezzadro.  


A causa degli impegni parrocchiali e della considerevole distanza tra il giardino e il paese, il prete non era sempre al corrente della quantità e del periodo di maturazione di alcuni frutti. Questi potevano variare di qualità e quantità a seconda dell’annata, e il periodo di maturazione non era sempre prevedibile. Forse a causa di un’eccessiva fiducia nel mezzadro, col passare degli anni, i frutti sulla tavola del prete avevano cominciato a scarseggiare. 
    «Cosa è successo quest’anno ai fichi? Ancora non li ho neppure assaggiati…!» domandò il prete. Era la stessa domanda che gli aveva già fatto l’anno precedente.  
    «Parrinu! I fichi quest’anno si futtieru!» rispose il contadino, abbassando lo sguardo per evitare quello indagatore del prete.  
    Ma dato che il prete aveva buona memoria e ricordava che, a detta dell’uomo, i fichi se li erano “fottuti” anche l’anno precedente e quello ancora prima, non se la bevve facilmente. Stimolato dal fatto che era ghiotto di quel frutto, architettò un piano per misurare l’onestà del mezzadro.  

    Qualche giorno dopo, lo fece tornare a casa sua. Quella sera, dopo averlo accolto in una stanza piena di libri, con la scusa di dover risolvere urgenti questioni, lo fece aspettare per un tempo che all'uomo sembrò interminabile. Nell’attesa, l’attenzione del mezzadro fu attratta da una vetrina chiusa a chiave, dentro la quale erano custoditi alcuni vecchi volumi con il dorso consunto. In particolare, il titolo di uno di questi, un libro di colore amaranto, gli ricordava qualcosa, ma non riusciva a capire cosa. Di certo, la lunga attesa e tutti quei libri lo misero un po’ in soggezione.  
    Mentre cercava di dare un senso a quel ricordo, una voce improvvisa lo fece trasalire.  
    «Dimmi un po’!» irruppe nella stanza il prete. «Ti farebbe piacere sapere chi si è fottuto i nostri fichi?»  
    «Reverendo…!? Come è vero che tutte le mattine spunta il sole! È la prima cosa che vorrei sapere», mentì il contadino, già in soggezione e agitato per la lunga attesa e per quell’irruzione a sorpresa, minuziosamente calcolata.  
    «Allora vieni domani sera prima della mezzanotte. Forse potrò aiutarti... Vedi quel libro dentro la vetrina? Quello con la copertina amaranto e con il dorso più logoro degli altri? Quello è il Libro del Cinquecento. In certe situazioni, se consultato allo scoccare della mezzanotte, nel settimo giorno del settimo mese dell’anno, potrebbe rivelarci la faccia del malandrino ghiottone di fichi non suoi. Sempre che… ti faccia piacere!»  
    «Certo… Certo… Domani sera…» balbettò l’uomo.  
    «Domani, provvidenzialmente, è il sette luglio», lo incalzò ancora il prete. «Capisci che fortuna…!?»  
Il contadino, con un’espressione tra il preoccupato e il sorpreso, fece un accenno di sì con il capo e, a testa bassa, salutò il parroco. Si rimise in testa il berretto, ridotto a straccio a furia di torcerlo con entrambe le mani come fosse un canovaccio da strizzare, e andò via.  

    Per tutta la notte, l’uomo ripensò a quel vecchio libro di color amaranto chiuso a chiave nella vetrina del mobile a casa del prete. Ricordò che fin da bambino gli avevano raccontato di quel misterioso libro del Cinquecento che, in particolari circostanze, poteva rivelare verità altrimenti celate ai comuni mortali. E finalmente lui lo aveva visto, anche se solo attraverso il vetro del mobile; anzi, aveva persino appoggiato la mano al vetro, quasi a volerlo toccare. In altre circostanze sarebbe stato ben felice di farne la conoscenza, ma a inquietargli il sonno, in quel caso, non era il libro in sé, bensì ciò che esso era in grado di rivelare. Durante la notte, nelle orecchie dell’uomo riecheggiarono gli ammonimenti di chi, negli anni, aveva tramandato la storia del libro del Cinquecento:  
    “Meglio non trovarsi mai al cospetto di un prete che tiene in mano quel libro!”  
    “Attenti…! Quel libro fa vedere la faccia del peccatore!”  
    “Quello è il libro della verità…!”  
    Probabilmente, per lui quel libro rappresentava il soprannaturale messo nelle mani del prete. Vedere la faccia del ladro di fichi evidentemente non gli dava affatto gioia, anzi lo inquietava. Purtroppo, non poteva dire al prete che avrebbe preferito sottrarsi a quella prova straordinaria e misteriosa.  

    L’indomani sera si recò all’appuntamento con qualche ora di anticipo e con in mano un cesto pieno di fichi della migliore qualità.  
    «Parrinu!» disse con falsa allegria, «Questi sono per voi... Sono andato a raccoglierli nel giardino di un mio carissimo amico che, quando ha sentito che erano per voi, mi ha detto di raccogliere solo i migliori…»  
    Dopo che il prete prese in mano il cesto, il mezzadro, con l’espressione di chi vuole risolvere pacificamente le questioni, consapevole che il libro sarebbe stato per lui come uno specchio, aggiunse:  
    «Reverendo! Le cose sovrumane lasciamole in pace. Non è il caso di disturbarle per un semplice piatto di fichi, anche se di buona qualità».  

    Dopo quell’accadimento, sulla tavola dell’astuto prete tornarono puntuali e nella giusta quantità le primizie del suo giardino, mentre per il contadino un altro frutto germogliava ogni anno nella pianta di fico: il Libro del Cinquecento, capace di svelare verità e risolvere problemi... senza nemmeno essere aperto.  

martedì 29 ottobre 2024

Antonio De Curtis, 'A LIVELLA

 

Antonio De Curtis

Ascolta 'A LIVELLA

 

    In questa ricorrenza del ricordo dei morti voglio condividere con voi una delle opere più significative della filosofia di Totò, al secolo Antonio De Curtis: 'A Livella.

    Scritta nel 1964, questa poesia è un esempio straordinario di come Totò, noto per il suo talento comico, abbia saputo anche esplorare temi profondamente umani e universali. La "livella" simboleggia ciò che rende gli uomini uguali indipendentemente dal loro status sociale quando erano in vita.

    Invito i lettori di questo blog ad ascoltare attentamente e a lasciarsi trasportare dal profondo significato.

    In via eccezionale, contrariamente ai principi di questo blog, per ascoltarla è necessario "subire" qualche secondo di pubblicità.

Ogn'anno, il due novembre, c'é l'usanza
Per i defunti andare al Cimitero
Ognuno ll'adda fà chesta crianza
Ognuno adda tené chistu penziero...

 Ascolta 'A LIVELLA

 

domenica 7 luglio 2024

FIGLIO, CHE SOFFI NELLE VELE

 

FIGLIO, CHE SOFFI NELLE VELE

Soffia, figlio, nelle vele di questa barca logora e vissuta,
senza ancora e senza bussola, con il timone cigolante,
qualche squarcio nelle vele e il rematore quasi stanco.

Soffia, figlio, soffia! Su queste mie ali fragili di farfalla.
Dai ossigeno al mio respiro, che mi toglie dalle secche.
La mia meta è navigare con il tuo sguardo all’orizzonte.

Non ho mappe da consultare né divise da indossare.
Ogni meta del nostro viaggio, un punto per ripartire.
Al successivo approdo, un altro porto già ci attende.

Il mio pensiero è di vegliare sulle rotte che vuoi solcare.
A volte le acque son tranquille, altre mari tempestosi.
Quanti
pericoli in agguato e quanti  ostacoli da scansare.

Capitano di bastimento, senza mappe da consultare.
Il tuo soffio, sempre atteso, mi sostiene e mi incoraggia.
Se mi fermo, perché stanco, tu non smettere di soffiare.

Figlio, apprendista rematore, senza limiti nei pensieri.
Senza squarci nelle vele, con in mente un grande sogno:
capitano diventare di un tuo bastimento da governare.

Molti mari avrai da solcare, da porti certi ad altri ignoti.
La tua meta sarà cercare nuovi orizzonti da esplorare.
Punta sempre verso un porto: il tuo sogno da realizzare.

Segui il cuore e il tuo futuro senza divise da indossare.
Sarà un soffio, sempre atteso, a rafforzare il tuo coraggio.
Continua, figlio, a navigare e non smettere di sognare.



martedì 7 maggio 2024

COSA HANNO FATTO LORO?

 

Giovani, sani di corpo e mente, che avete la fortuna di vivere nel mondo dell'abbondanza e spesso avete la facoltà di potervi concedere anche il superfluo oltre l'inutile. Quando vi sentite "diseredati" dal vostro futuro e vi lamentate verrebbe naturale, in qualche modo, poter fare qualcosa per voi. Bensì non sia cosa facile.

Non è cosa semplice, per la mia generazione, potervi offrire il nostro aiuto. Sono convinto che una parte del vostro disagio dipenda dalle nostre mancanze. Ci è stato tramandato un futuro già delineato dalle generazioni precedenti e, come genitori, ci spettava il compito di tutelare e difendere quei progressi che vi avrebbero garantito equità nei diritti e nei doveri. Tuttavia, anziché vigilare su tali diritti ci siamo assopiti nel godimento del benessere che le generazioni precedenti, con il loro sacrificio, ci hanno donato. Non sono sicuro che noi, anche se consapevoli delle nostre colpe, ora possiamo esservi d'aiuto. Neppure i governi, col megafono così in voga in questo periodo, saranno in grado di valorizzare le vostre potenzialità; di conseguenza, nemmeno le istituzioni potranno farlo. L'impressione che emerge è che, quando sollevate le vostre proteste, trovate qualcuno che invece di capire le vostre ragioni e difendere il vostro diritto al pensiero, vi impone di abbassare la testa; e lo fanno con mezzi che non sono esplicitamente quelli contemplati nella Carta dei diritti e dei doveri.

Nonostante tutto, la mia generazione qualcosa può suggerirla: se non riuscite a immaginare un futuro che possiate costruire con il vostro lavoro e un po' di impegno sociale, consultate le generazioni che ci hanno preceduto. Chiedete loro se quando erano giovani come voi stavano meglio o peggio di voi. Domandate se immaginavano il loro futuro già preparato da altri o se, con fatica e impegno sociale, lo hanno prima immaginato e poi costruito. Chiedete quante volte hanno dovuto dormire con lo stomaco non proprio pieno, nonostante avessero lavorato sodo. Chiedete loro queste cose; essi vi insegneranno come ognuno, nei limiti delle proprie capacità e possibilità, debba partecipare alla costruzione del proprio futuro e di quello della collettività di cui fa parte. Non esitate a chiedere! Anche se molti di loro non possono più rispondere con le parole perché ormai dormono sulla collina, possono comunque rispondervi con le loro gesta scritte da chi ha fatto tesoro del loro sacrificio.

Quelle pagine vi diranno cosa hanno fatto quando sulle montagne, mettendo in pericolo la loro stessa vita, non sentivano né freddo né fame, pur soffrendo entrambi; non li sentivano perché condividevano un sogno: costruire il loro e il nostro futuro. Chiedete, chiedete sempre, e loro vi racconteranno come nonostante le avversità, hanno costruito il futuro in un tempo in cui, al contrario di noi, vivevano un presente molto difficile. Chiedete, chiedete sempre, per tenere in vita il loro pensiero e non far morire nell’oblio il loro sacrificio.