Quando ho del tempo libero da dedicare a mio piacimento, a volte nasce in me il desiderio di osservare con particolare attenzione il comportamento degli esseri viventi: piante, animali, umani compresi. Alcune osservazioni, più di altre, mi lasciano dentro una scintilla di curiosità e meraviglia. Quando accade, talvolta ne lascio traccia scritta.
Questo racconto, ad esempio, nasce dall’osservazione di una famiglia di passeri durante la stagione della procreazione. Lo condivido spesso, quando posso e l’occasione lo consente, con quei genitori che si lamentano della pigrizia dei figli nel lasciare il nido. Figli che, invece di prendere l’iniziativa e affrontare il mondo da soli, preferiscono restare tra le sicurezze domestiche, accuditi e protetti.
IL PRIMO VOLO
Era maggio di qualche anno fa e mi trovavo nella mia casa in montagna. Una coppia di passeri aveva scelto un angolo riparato della casa per costruire il proprio nido, tra i rami di una rosa rampicante appoggiata al muro, a circa tre metri da terra: un luogo ben protetto dalla pioggia e dai predatori.
Li osservai a lungo, per alcuni giorni, con pazienza. Dopo aver intrecciato rametti e fili d’erba, completarono il nido con piume e peli d’animali, creando un piccolo rifugio soffice. La femmina depose quattro uova, uno al giorno. Trascorse circa una settimana, poi un’altra: nel giro di ventiquattr’ore si schiusero tutte. La vita, delicata e affamata, era iniziata.
Passò un’altra quindicina di giorni. Una mattina notai un movimento inconsueto: uno dei piccoli era salito sul bordo del nido. Apriva le ali, le agitava, sembrava fare le prove. Girò su se stesso, cercando l’equilibrio. Poi si lanciò. L’atterraggio fu un po’ maldestro, ma era volato. Sul selciato, a pochi metri di distanza, lo attendeva il padre, riconoscibile per una macchia nera sulla gola. Gli fu subito accanto, lo accompagnò su un terrapieno vicino e, da lì, il piccolo fece un secondo tentativo. Questa volta andò meglio.
Il secondo passerotto fece altrettanto, ma spiccò il volo con maggior decisione e si allontanò rapidamente. Lo persi di vista.
Il terzo atterrò goffamente, come il primo, ma a soccorrerlo scese la madre, che fino a quel momento aveva controllato la situazione saltellando tra i rami attorno al nido.
Infine toccò al quarto. Salì anche lui sul bordo, spiegò le ali… ma poi ci ripensò e si rintanò di nuovo. La madre, tornata a sorvegliare da vicino, si avvicinò e lo stuzzicò con il becco, cercando di convincerlo a seguir l’esempio dei fratelli. Il piccolo ci riprovò: ali aperte, sguardo incerto, poi ancora rifugio nel tepore del nido.
Allora la madre cambiò strategia. Con dolcezza lo spinse verso il bordo. Aspettò l’attimo in cui, con le ali distese, esitava sospeso. E proprio allora, con una decisa spinta sul sedere, lo fece volare giù dal nido.
Ecco perché racconto volentieri questa storia. La racconto ai genitori scoraggiati, a quelli che non sanno più come stimolare i propri figli a fare il grande salto verso l’autonomia. Perché a volte l’amore, per essere davvero tale, deve anche saper dare una spinta.