Platone |
Sento lamentare
tanti che la
nostra civiltà è
sofferente; che
tutto va male e i governanti, invece di mettere a posto le
cose, pensano solo ai loro
interessi.
La
domanda viene
spontanea: cosa
possiamo fare per cambiare
la situazione e far
guarire la nostra società?
Credo che non esistono
risposte semplici a queste
domande,
ma altre domande. Dobbiamo
chiederci cosa ci
hanno lasciato in eredità i nostri Padri, cioè
coloro che hanno costruito la
Repubblica e la
Costituzione.
È
indiscutibile che ci abbiano
lasciato dei tesori da usare, custodire e proteggere. Ma dobbiamo
anche chiederci, come li abbiamo custoditi e quale eredità, in
proposito, lasceremo ai nostri figli.
Ci
sono cittadine e cittadini impegnati ad apportare nuova linfa alla
Democrazia; ce ne sono, anche, che vigilano sulla Costituzione;
altri, nel loro piccolo, senza far chiasso, si impegnano a risolvere
problemi collettivi. Ma si tratta di una piccola minoranza, la
maggior parte di noi si occupa prevalentemente degli affari propri,
apportando qualche miglioria solo al proprio benessere. Tutti però,
quando si tratta di chiedere diritti, ci appelliamo tanto alla
Democrazia quanto alla Costituzione.
Se
Democrazia e Costituzione sono una ricchezza, ma molti consumano e
pochi l’alimentano, quanto può durare?
Credo
che queste siano alcune delle cause che indeboliscono la democrazia e
di conseguenza la società. E non credo che i colpevoli siano solo i
governanti, anche se loro hanno delle forti responsabilità. Credo
che ogni cittadino, se soffre di questo malessere, dovrebbe chiedersi
cosa ha fatto affinché la Democrazia non si ammalasse.
Per
avere qualche indicazione su cosa dovremmo fare per far guarire la
nostra civiltà, mi affido proprio a quei Padri che, direttamente o
indirettamente, hanno costruito Democrazia e Costituzione.
Riguardo
alla Democrazia, parto da lontano chiedendo lumi a Platone. Mentre
per sapere cosa ne facciamo della Costituzione, mi affido a Piero
Calamandrei, che era tra coloro che l’hanno fatta nascere.
Da: La
Repubblica di Platone (360 a.c.)
“Quando la
città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la
licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi
l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni
sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre
di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere
continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si
abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo
perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del
padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua
pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga,
chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di
chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto
questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che
divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che
l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia
e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente
siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari
non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si
confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di
mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per
sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri
sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche
tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende
impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare
il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico
rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e
moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo
che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando
raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di
nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono,
anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e
i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può
comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico,
pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà,
quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me,
come nascono le dittature. Esse hanno due madri.
Una è
l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in
satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e
per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e
nella paralisi.
Allora la gente
si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale
disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la
violenza che della dittatura è pronuba e levatrice.
Così la
democrazia muore: per abuso di se stessa.
E prima che nel
sangue, nel ridicolo”.
Tratto da: Discorso sulla Costituzione di Piero Calamandrei (1955)
“La
Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va
avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere
e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci
dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo
spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria
responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla
Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una
malattia dei giovani l’indifferentismo.
«La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica”.
«La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica”.
Aver scambiato la Democrazia per licenza, lo Stato per una mucca da mungere, e la Carta costituzionale per un rotolo da gabinetto. Questo ci dicono Platone e Calamandrei. E queste, credo, siano le responsabilità di tanti governanti e di molti cittadini: aver infettato la Democrazia per ABUSO di se stessa, e maltrattata la Costituzione per l’IGNORANZA di esserne possessori.
Francesco Corradino
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